La parola è per metà di colui che parla,
per metà di colui che l’ascolta.
(Michel de Montaigne)
Non esiste una magia come quella delle parole.
(Anatole France)
Quando dico
di essere una psicologa, molte persone mi chiedono: “Ma alla fine cosa si fa
dallo psicologo? Si parla e basta!”.
A volte mi chiedono anche: “Sei psicologa? Allora mi stai psicoanalizzando!?”.
Ecco. Il 99,99% delle volte non è così. Sappiatelo. Anche lo psicologo, mentre
fa l’aperitivo, si gode il suo momento di relax e… non lavora!
Comunque sì.
E’ vero. Quando si va dallo psicologo si parla. Spesso si parla davvero tanto.
In effetti la parola è lo strumento
principale in psicologia e in psicoterapia. La parola, a braccetto con il silenzio e l’ascolto, fa parte degli strumenti principali di lavoro dello
psicologo. Ed è talmente importante che è veramente difficile concentrare tutto
in pochi minuti.
Ovviamente lo psicologo utilizza anche altri strumenti, come i test di disegno,
il Test di Rorschach (cioè il famoso “test delle macchie” che si vede nei film),
questionari di personalità, attività manipolative… ma ogni cosa necessita della
parola, per essere spiegata e compresa.
La parola in
psicologia è importante perché permette di farsi
conoscere e di conoscersi.
Si raccontano le proprie esperienze passate, si parla dell’infanzia, della
famiglia, della vita presente, del proprio disagio attuale, ma anche delle
aspettative e dei desideri per il futuro. Si esprimono e descrivono vissuti ed
emozioni che sono inevitabilmente legate ad ogni periodo della vita.
Qualcuno di voi si chiederà: “Sì, ma io parlo sempre con il mio migliore
amico/con mia moglie/con mio cugino. Quindi, cosa cambia? E’ un po’ come andare
dallo psicologo, no?”.
No. Parlare con uno psicologo è ben diverso.
Innanzitutto, lo psicologo è un professionista preparato ad ascoltare in maniera non giudicante e senza condannare. Tutto quello che viene raccontato assume, per lo
psicologo, un senso, proprio perché ogni vissuto, ogni emozione, ogni
comportamento, è legato alla storia di vita di quella specifica persona. E, in
quanto tale, assume significato.
Lo psicologo è strettamente legato al segreto
professionale. Questo significa che tutto quello che dirò al mio psicologo,
resterà chiuso dentro quella stanza.
Durante le sedute ci si può sentire liberi di parlare di ogni cosa, anche di
quelle cose che non sono mai state raccontate a nessuno, a volte per vergogna,
o per timore di essere giudicati male dalle altre persone.
Ci sono alcune parole che ricorrono in quasi tutti i percorsi psicologici:
paura, rabbia, senso di colpa, vuoto, solitudine, frustrazione… parole forti,
che fanno stare male anche solo a pensarle. Sono parole che spesso non vengono
accettate dalla società e che si riferiscono a stati d’animo che ci portiamo
dentro a volte da molto tempo e che possono emergere solo con le parole.
Parlarne è già terapia.
La forza dei gruppi terapeutici di
sostegno o di confronto sta proprio nella parola. Il potersi raccontare, il
mettere a disposizione degli altri le proprie esperienze personali, permette di
avviare il confronto con vari vissuti ed esperienze. Permette di sentirsi
compresi, meno soli e alleggeriti.
Provate a pensare a tutte le volte che avete avuto un problema (una difficoltà di gestire il vostro bambino o il figlio adolescente, il dolore per la perdita di una persona cara…) e avete scoperto che quello che pensavate essere solo un vostro problema o un vostro vissuto, in realtà era condiviso e compreso anche da altre persone. Pensate al senso di sollievo e a volte persino di felicità che avete provato. Se non ne aveste parlato con nessuno, ve lo sareste tenuto dentro e avrebbe continuato a preoccuparvi e a farvi male.
In terapia, la parola cura. Nel momento stesso in
cui utilizziamo la parola per raccontarci, per descrivere esperienze, emozioni,
vissuti profondi, il nostro cervello sta lavorando. Ripensa a quanto successo,
alle emozioni provate, elabora i vissuti legati a una determinata situazione.
Si potrebbe parlare di questo tema giornate intere.
Farò qui un esempio, tratto dalla mia esperienza professionale.
Uno dei principali ambiti di cui mi occupo è l’elaborazione di traumi (violenze,
incidenti, lutti, catastrofi ambientali, perdita del lavoro, vissuti di mobbing…)
e di lutti.
Nell’affrontare questi temi, la parola assume un ruolo centrale, poiché
consente di descrivere i ricordi legati agli eventi traumatici e di esprimere
le emozioni ad essi legate, consentendo in tal modo l’elaborazione del trauma,
anche con il prezioso aiuto di tecniche molto specifiche (come l’EMDR – Eye
Movement Desensitization and Reprocessing).
Raccontare le proprie emozioni e viverle non è mai una cosa negativa, neanche
quando si sta male e si piange. Non lo è soprattutto in terapia, perché
permette di tirare fuori tutta l’energia che teniamo dentro di noi e di
sentirci così più liberi, con un maggiore senso di benessere psicologico, ma
anche fisico. Il racconto del paziente aiuta inoltre il terapeuta a direzionare
il suo lavoro. Le parole indicano la strada da percorrere.
I termini che vengono utilizzati in terapia sono importanti, perché ci fanno capire per esempio a che punto è il percorso. Una persona che soffre di depressione, per esempio, utilizzerà molti termini legati alla tristezza, alla perdita di senso della vita. L’utilizzo di termini più positivi fa invece capire che la strada che si sta percorrendo è quella giusta, perché qualcosa nella mente della persona e nel suo modo di approcciarsi alla vita sta cambiando.
Ma non è
solo il paziente che parla. Anche il terapeuta parla, offre spunti di
riflessione, sottolinea alcuni momenti fondamentali della terapia, qualche
volta racconta anche di sé.
Si tratta di una relazione terapeutica, tra due persone che hanno un obiettivo
comune: il benessere del paziente.